«Mi giunge nuova la decisione dell’Italian Food”, dichiara il sindaco Rossana Soffritti. «Abbiamo avuto una riunione lunedì, nel corso della quale Petti ci ha prospettato le difficoltà, in particolare a causa dei diversi tempi di pagamento tra clienti e fornitori e per la situazione di mercato». Quindi non si era parlato di chiusura dell’azienda? «No, nient’affatto. Per il problema del parcheggio abbiamo detto che, quello lungo via Cerrini, deve essere tenuto bene e sotto controllo». E dell’eventualità di costruirne uno dietro via Sardegna solo per l’Italian Food? «Non è possibile, perché si tratta di un fondo agricolo, tra l’altro di un privato. Si può – prosegue Soffritti – sollecitare la Regione per favorire l’integrazione nella filiera emiliana. Quanto al bando, il finanziamento serviva a potenziare l’azienda e poteva avvenire solo con il trasferimento. Senza un governo, la Regione può fare ben poco» chiude il sindaco dicendosi pronta a discutere con l’azienda.(f.r.)
L’Italian Food a rischio chiusura. Pasquale Petti, socio ed amministratore della società, ha già fissato il giorno preciso, sabato 18 di maggio. Una decisione, “certa al 99%” secondo Petti, che si abbatte come un macigno sui 300 dipendenti, 84 fissi ed il resto a tempo determinato, assunti ogni anno con due contratti di quattro mesi, ed un indotto che si aggira sulle 1500 unità tra agricoltori, trasportatori, addetti alle vetrerie, ecc. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo il congelamento, deciso dal governo Monti, del finanziamento di 20 milioni del ministero dello sviluppo economico, che avrebbe favorito la delocalizzazione nella zona artigianale. Secondo il calcolo di Petti, sarebbero serviti 2.600.000 euro per il terreno, poi 2.500.000 per il riempimento fino al raggiungimento della cifra di 70 milioni a trasferimento completato.
Senza quel finanziamento lo spostamento sarebbe impossibile. Ci sono poi gli alti costi di Asa e Asiu, in media maggiori del 30% rispetto a quanto paga il gruppo per gli altri stabilimenti in Campania e Puglia. Pesano anche i mancati rinnovi delle autorizzazione all’uso di tensostrutture temporanee, biennali ed in scadenza a luglio, ed il diniego dell’autorizzazione per l’uso di parcheggi esclusivi per i mezzi dell’azienda. «Eravamo disposti pure ad acquistare delle aree agricole dietro via Sardegna, in modo da evitare il passaggio su via Cerrini, ma ce lo hanno negato». Poi ci sono i maggiori costi del pomodoro fresco. E se i grandi gruppi, in forma di cooperativa, possono beneficiare di aiuti statali, per un’impresa privata come l’Italian Food questo non è possibile. Infine, per legge il pomodoro fresco deve essere pagato entro 30 giorni, mentre i supermercati possono ritirare il prodotto entro i 12 mesi e pagare a 60 giorni fine mese dalla fattura.
Il punto è che i supermercati, a causa della contrazione della richiesta, non ritirano la quota pattuita e questo rimanda ulteriormente la data dell’incasso, oltre ad incrementare la quota di prodotto che rimane in magazzino (attualmente il 50%). In che cosa consiste quell’1% che potrebbe salvare l’Italian Food? «In un miracolo, che può provenire solo dalla Regione e da Enrico Rossi in particolare. Nel 2010 – spiega Petti – abbiamo firmato un protocollo alla Regione. Capisco che certi termini dovranno essere modificati, ma vorrei che Rossi si ponesse il problema di come sia possibile raggiungere lo stesso il fine di quel protocollo. Non voglio soldi pubblici. Voglio che ci permettano di lavorare». Una difficoltà che accalora Petti è il muro opposto dai supermercati Coop e Conad all’ingresso del suo prodotto. «Mi viene detto che ci sono accordi con l’Emilia-Romagna, eppure se fossimo noi a rifornire questi supermercati questi avrebbero il migliore pomodoro, quello toscano, e ad un prezzo molto competitivo, a causa del taglio del costo del trasporto; la filiera sarebbe ridotta. Ed io sarei perfino disposto a produrre con il marchio loro». Pasquale Petti, l’altro socio è il padre Antonio, presidente, dirige l’azienda dal 2005, anno in cui il fatturato raggiunse 12 milioni. All’epoca l’Italian Food esportava in tutto il mondo. L’invasione della Cina a prezzi più bassi ha imposto di ricalibrare il mercato e oggi l’azienda produce per l’Italia e l’Europa. Gli ultimi fatturati sono stati alti, 51 milioni nel 2011 e 49 milioni nel 2012, ma si sono conclusi lo stesso in perdita. E le perdite sono state colmate con aumenti di capitale. In caso di chiusura , la famiglia si trasferirà al sud per seguire gli altri due stabilimenti. Un terzo si trova in Nigeria.
di Francesco Rossi
Il Tirreno 17.04.2013
Ma perché la Coop e Conad non acquistano da Petti? Acquistano in Emilia senza tener conto della occupazione in Toscana ? Se non e’ una differenza di costi cosa puo’ impedire l’acquisto da Petti e mantenere cosi’ il livello di occupazione?