«PIOMBINO non deve chiudere»: in duemila hanno gridato questo slogan. Duemila fra operai e cittadini sono scesi in piazza per chiedere con forza un rilancio degli stabilimenti Lucchini e Magona. Un corteo che è partito dai cancelli della fabbrica e ha attraversato la città fino in piazza Cappelletti. Applausi dei commercianti in segno di solidarietà che avevano abbassato la saracinesca: gran parte dei negozi, il 90%, è rimasto chiuso. I sindacati hanno ringraziato tutti i commercianti che si sono uniti alla mobilitazione. Dal palco ha aperto il segretario Fim Fausto Fagioli.
«UNA GRANDE manifestazione — ha commentato Luciano Gabrielli della Fiom Cgil — che ha coinvolto tutti i lavoratori della città perchè Piombino non deve chiudere. Il corteo è sfilato tra gli applausi della gente e dei negozianti. Siamo soddisfatti per l’adesione di tutte le associazioni, Cna, Confcommercio, Confesercenti e Cooperative, e di tutti i lavoratori che hanno partecipato. Ora vedremo e valuteremo come continuare a partire da settembre, la mobilitazione che porteremo a Roma».
E LA VICENDA di Piombino si intreccia con quella dell’Ilva di Taranto dove migliaia di operai protestano per il blocco della fabbrica dopo il sequestro della magistratura degli impianti per problemi ambientali. «Il governo dovrà fare la sua parte: su Taranto dovrà investire, i lavoratori non possono pagare il prezzo di chi ha sbagliato. Ricordiamo, la scelta di chiudere la cokeria 27 forni a Piombino fu appoggiata solo dalla Fiom, ora abbiamo una qualità ambientale migliore, per Piombino il governo dovrà puntare su una politica industriale favorendo l’ingresso di nuovi acquirenti». «A Roma il sottosegretario allo sviluppo ha già fissato un incontro entro settembre — ha detto Vincenzo Renda segretario Uilm — annunciando che a breve si aprirà un tavolo con la Regione per i siti industriali in crisi. Va bene, ma serve una industria forte e competitiva per riprendere la crescita economica».
«PIOMBINO rappresenta una realtà industriale massiccia che non vogliamo archiviare ma che vogliamo riqualificare con bonifiche, infrastrutture e investimenti nei limiti degli aiuti di Stato». Così il sindaco Gianni Anselmi ha parlato del rilancio delle acciaierie dal palco della manifestazione seguita allo sciopero promosso stamani dai sindacati sulla crisi della Lucchini e del settore siderurgico. «Qui, in un migliaio di ettari — ha proseguito Anselmi — ci sono tre multinazionali dell’acciaio e la più grande centrale Enel della Toscana. Lo Stato a Piombino è presente da decenni. Ora siamo su un crinale ed è giunto il momento che lo stesso Stato intraprenda politiche di riqualificazione e che riaffermi una presenza investendo sulle potenzialità del territorio di fronte alle sfide imposte dal futuro e dalla globalizzazione».
La Nazione 28.07.2012
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In piazza perchè «Piombino non deve chiudere». La giornata della mobilitazione in difesa della siderurgia, è arrivata. Stamani il corteo organizzato da Cgil, Cisl e Uil e dalle rispettive sigle di categoria, partirà intorno alle 8 da largo Caduti sul lavoro (ex cavalcavia delle Acciaierie). Alla manifestazione cittadina hanno aderito anche Cna, Confcommercio e Confesercenti. «Tutti insieme – dicono le tre organizzazioni – dobbiamo chiedere l’intervento del governo. E’ fondamentale che il territorio reagisca in modo unitario, per far convergere l’attenzione sul polo siderurgico da cui dipende il futuro ». Da qui l’invito a tutte le aziende a partecipare al corteo.«La grave situazione in cui da mesi versa la siderurgia, e che si ripercuote su gran parte dell’economia della zona, non può concludersi con la totale chiusura dei cicli produttivi. Ancora oggi – aggiungono – il sistema delle piccole e medie imprese è fortemente legato all’industria. E’ un intero territorio che vive in funzione diretta o indiretta delle grandi aziende e le loro criticità hanno un inevitabile effetto domino».
Non potrà essere presente l’assessore regionale Gianfranco Simoncini, convocato a Roma dal ministero per la vicenda della Richard Ginori, «ma – afferma alla vigilia – sarò ugualmente a fianco dei partecipanti. Come ho fatto presente nell’incontro del 13 luglio con il responsabile per Italia, Francia e Spagna di Arcelor Mittal – scrive l’assessore ai sindacati – la Regione, così come le istituzioni locali, è interessata al consolidamento degli stabilimenti di Piombino ed è disponibile a mettere in campo strumenti per favorire progetti di investimento salvaguardando livelli occupazionali, sia per sostenere il reddito dei lavoratori. Le ultime notizie – continua l’assessore – confermano inoltre la validità della richiesta avanzata al ministero dello Sviluppo economico per la convocazione di un tavolo generale su Piombino, che affronti complessivamente la situazione dell’intero polo produttivo». Adesione anche da Rifondazione Comunista che sottolinea la necessità del mantenimento del ciclo integrale e dell’occupazione. «Inserire Piombino come “area di crisi” nei programmi del governo puo’ essere un primo passo, ma siamo convinti della necessita’ di rivedere la concezione di tutto il sistema Industriale italiano ed in particolare quello dell’acciaio». Rifondazione trova folle, al contrario del ministro Passera, pensare che la produzione dell’acciaio non sia più strategica per un paese delle dimensioni e dell’importanza economica dell’Italia. «Provate ad immaginare – prosegue – se in un momento di crisi internazionale, ci trovassimo a dipendere per i rifornimenti di acciaio dalla Germania, dalla Bulgaria, dall’India o da chissà chi altro. L’acciaio e’ il semi-prodotto base per qualsiasi tipo di oggetto: dalla forchetta all’automobile, e sarebbe assurdo far dipendere la produzione di qualsiasi bene delle fabbriche italiane dalle condizioni di mercato che verrebbero dettate da qualsiasi altra nazione. Riteniamo che sia assolutamente urgente tornare a pensare un pesante intervento dello Stato nella programmazione e produzione delle materie prime». Roberto Rizzo, responsabile del dipartimento Lavoro-Welfare Idv Toscana, annuncia il sostegno del suo partito. «Lo sciopero di Piombino assume una valenza fondamentale su scala nazionale. Torniamo a fare appello al grande assente di questa vertenza, il Governo nazionale, affinché si ponga a difesa di un apparato industriale che è anche patrimonio del Paese con l’attivazione di un Tavolo Nazionale per la Siderurgia e delineando un piano di rinascita industriale per la siderurgia della Val di Cornia». |
Piombino si spegne con le sue acciaierie La speranza: il porto |
Cinquemila posti in bilico e una città che rischia di chiudere Consumi a picco, si teme l’effetto domino sul commercio |
Qualche anno fa, per dimostrare quanta fuliggine saltasse il muro delle acciaierie, gli abitanti del Cotone stendevano lenzuoli sui davanzali delle case. Poche ore dopo li ritiravano, scuriti di una polvere sottile, tanto sottile che copriva tutto e s’insinuava negli anfratti più nascosti del corpo umano. Oggi quei lenzuoli sono spariti, non tanto per la collinetta artificiale costruita tra le case e il muro perimetrale dello stabilimento, tirata su con l’idea di difendere la gente dagli spurghi degli impianti, quanto perché quel pulviscolo scuro e mefitico rischia di non arrivare più. Il futuro immediato è chiaro eppure nebuloso: il 5 agosto sarà spento l’altoforno delle acciaierie, senza che alla fermata si aggiunga la certezza tecnica di un riavvio. L’impianto è stato rinnovato nel 1996 e per l’implacabile legge del tempo è giunto a fine corsa.Nel 2014 andrebbe sostituito ma servono capitali e assetti proprietari definiti. Non ci sono gli uni né gli altri e l’insicurezza avvolge la città ancor più di quanto riuscisse a fare la polvere nera al Cotone. A Piombino il clima è cupo, nonostante che il sole splenda pieno d’estate. Anzi è tenebroso, da quando le prospettive della Magona, l’altra grande fabbrica del territorio, contemplano l’eventualità della chiusura. Se le fosche previsioni si avverassero, senza un qualcosa che interrompa la spirale, un’intera città sarebbe costretta a re-inventarsi il futuro. Per questo stamani si svolgerà uno sciopero generale di tre ore, dalle 7,30 alle 10,30, comprensivo di una manifestazione dal titolo così esplicativo da suonare scontato: “Piombino non deve chiudere”.
La città ha paura . Luciano Gabrielli, segretario provinciale della Fiom-Cgil, in poche parole riassume l’angoscia della città: «A Piombino si rischiano cinquemila posti di lavoro su 35mila abitanti. Il polo siderurgico è messo in discussione, con l’altoforno che non ci dà più le certezze di una volta: se Lucchini non trova un acquirente nel giro di cinque o sei mesi, finirà per esaurirsi da sola, col rischio dello smembramento». Perché lo stabilimento sopravviva serve qualcosa come un miliardo di euro: solo il debito con le banche, anche se ristrutturato, è di 770 milioni. Poi ci sono le bonifiche, per le quali ne servono 224. E la realizzazione del nuovo altoforno, per una cifra attorno ai 120 milioni. Quadro di per sé capace di asfissiare qualsiasi azienda, figuriamoci la Lucchini del gruppo Severstal che al massimo produce per i tre quarti della propria possibilità, senza che il magnate russo Alexei Mordashov abbia dilazionato l’impegno a vendere entro il 2014, seppure al prezzo simbolico di un euro. La chiusura di quattro settimane in agosto, con annessa fermata dell’altoforno, significherà ferie forzate per i 2143 dipendenti (1943 già in contratto di solidarietà) e i circa 1600 dell’indotto. La crisi dell’acciaio. Se l’unico nodo da sciogliere fosse l’acquirente, in qualche modo il pessimismo risulterebbe mitigato. L’assenza del compratore però amplifica gli effetti della crisi: l’edilizia è ferma al pari dei cantieri per le grandi opere, l’industria dell’auto è al minimo storico degli ultimi vent’anni. E in questo modo l’Europa dell’acciaio si trova in piena crisi da sovracapacità produttiva, con gli altoforni chiusi in serie. La stagnazione è aggravata dal drastico calo del prezzo del rottame, che favorisce le acciaierie elettriche e non quelle – come la Lucchini – funzionanti a materia prima. Il risultato è la perdita di fette della produzione nazionale: «In Italia solo Piombino, assieme a Taranto, fa il ciclo integrale – aggiunge Gabrielli -. Se viene meno industria primaria, come si fa ad andare avanti?» Lo choc Magona. Il futuro della Lucchini è indecifrabile al pari di quello della Magona, dove lavorano 545 persone (276 a contratto di solidarietà), ma con la capofila Arcelor-Mittal pronta a disimpegnarsi. A fronte di un fatturato di 400 milioni e una perdita di 20, l’azienda ha tagliato il 50% delle linee produttive, riducendole a due: zincatura e verniciatura. Il pacchetto di ordini disponibili consente di sopravvivere fino alla fine di settembre, quando il laminatoio chiuderà, con un’eccedenza prevedibile attorno alle 280 unità. Le prospettive sono desolanti: cessazione, vendita o marcia ridotta con una sola zincatura e una verniciatura. La soluzione starebbe in un nuovo acquirente, di cui però non c’è traccia. L’italiana Arvedi, in un primo momento inserita nel novero delle aziende interessate, ha smentito seccamente. La conclusione, chiarisce Gabrielli, è una sola: «Servirebbe una politica industriale. Ma il governo non ce l’ha». Il commercio ansima. In giro c’è un’aria strana. Il senso d’impotenza si mescola alla voglia di non darsi per vinti, l’orgoglio di un passato irripetibile è frustrato da un futuro rimpicciolito. Se la siderurgia va in affanno, il commercio la segue a ruota: «I consumi si sono già contratti – ammette Antonio Baronti, presidente della Confesercenti – e alla crisi globale si aggiungono gli effetti locali. Siamo preoccupati, sappiamo già che entro la fine dell’anno molti saranno costretti a chiudere». Il timore è di un domino dalle conseguenze disastrose: la città non saprà sopravvivere alle fabbriche che muoiono, dopo decenni di una monocultura industriale che ha escluso ogni diversificazione produttiva. Le speranze? Nel porto. Persino il porto ne risente. Nei primi sei mesi di quest’anno le merci rinfuse hanno toccato i due milioni e 800mila tonnellate, contro i tre milioni e 570mila del 2008. Un calo evidente, legato alla contrazione dei traffici di Lucchini e Magona. Luciano Guerrieri, presidente dell’autorità portuale, conviene che la tensione è alta: «Aspettiamo con ansia i dati del secondo semestre». Ma è proprio su queste banchine, passaggio obbligato tra l’Elba e il continente, che s’addensano le migliori speranze di rilancio di una città bella e sola, popolata da gente innamorata del proprio territorio e divorata dall’ansia per il futuro. Il piano regolatore ridisegna la fisionomia del porto: le banchine passeranno dai 2300 metri attuali ai 5750 futuri, le aree portuali saranno quasi quadruplicate, i fondali dragati fino a 13-15 metri, il canale d’accesso ampliato a 16 metri. L’investimento previsto è di 445 milioni in otto anni, che sale a più di mezzo miliardo se si considerano le bonifiche. Lo scenario è suggestivo, ma difficile da attuare, stante la crisi e le condizioni della finanza pubblica: «Noi cerchiamo investitori sui mercati – conclude Luciano Guerrieri -. Entro i prossimi sei mesi metteremo a punto il piano economico-finanziario». Se tutto filerà per il verso giusto, i mille occupati odierni del porto (tra diretti e indotto) raddoppieranno entro il 2020. Una boccata d’ossigeno rispetto alle cupe prospettive della siderurgia. Ma otto anni sono lunghi da passare. E Piombino, per non chiudere, ha bisogno di risposte immediate. di Antonio Valentini |
IL SINDACO GIANNI ANSELMI |
«Serve un intervento pubblico» |
Manteniamo l’industria, il turismo non potrà mai compensarla |
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«Mi chiede come andiamo? Cosa vuole che le risponda: molto male». Gianni Anselmi, sindaco di Piombino, al solito è chiaro e concreto: le acciaierie rischiano di essere strangolate dalla crisi finanziaria, la Magona non riesce a essere competitiva e su entrambi gli stabilimenti incombe la recessione internazionale, che deprime oltre misura il mercato dell’acciaio. «Ma al di là delle situazioni specifiche, ci troviamo di fronte a un problema territoriale: ebbene, se ci deve essere un intervento pubblico in economia, questo territorio lo meriterebbe».Servono politiche industriali che permettano il rilancio di un’area produttiva grande mille ettari, a partire dalle bonifiche e dai costi energetici. E investimenti, benché in misura e con modalità diverse rispetto al passato. «Abbiamo un patrimonio industriale che vogliamo tutelare – prosegue Anselmi – Fa parte di un settore privato che ha riflessi pubblici. Se non s’interviene, la situazione rischia di aggravarsi fino a divenire un problema sociale».
Su Lucchini e Magona il futuro è per nulla scontato. Migliaia di dipendenti trascorreranno le ferie forzate nell’angoscia del rientro. Piombino non ha alternative occupazionali alla grande industria e chi «parla del turismo – spiega il sindaco – non tiene debitamente conto del fatto che per rispondere alla crisi non possiamo rovinare il territorio». E poi, quanti alberghi e campeggi servirebbero per compensare i seimila posti di lavoro persi nella siderurgia, per ogni giorno in ciascuno dei 12 mesi dell’anno? No, la risposta sta nella ricerca di soluzioni che permettano di uscire dalla crisi: «A Piombino bisogna difendere il presente e riflettere sul futuro – argomenta Gianni Anselmi – se la siderurgia oggi non guadagna e non sta in piedi, si tratta di capire quale prospettiva abbiano quelle capacità produttive. Il Governo deve proporre una progettualità a breve e a lungo periodo, ma oggi abbiamo bisogno di soluzioni. Chiediamo investimenti sul riuso delle aree industriali per garantire competitività sul territorio». Ora che le certezze di una volta non ci sono più ma restano i posti di lavoro da salvare, i mille ettari del polo produttivo di Piombino, possono valere come un laboratorio dove sperimentare a tutto tondo un rilancio industriale.(a.v.) |
II Tirreno 27.07.2012